martedì 30 aprile 2013

INCONTRO con Stefano Tummolini traduttore del romanzo Stoner


Incontro con Stefano Tummolini
[Regista,sceneggiatore, traduttore]
                                                       
La nostra chiacchierata comincia nel corridoio di un piccolo supermercato del quartiere di Testaccio. Sono le sette di sera. Stefano ha avuto una giornata molto piena ed ha il frigo vuoto. Lo accompagno a fare la spesa. Tra gli scaffali della frutta e della verdura incominciamo a parlare di libri e  di letteratura americana. Amo l’informalità. Mi sento a mio agio. Stefano fa tante cose nella vita ma oggi lo incontro per parlare della bella traduzione che ha curato per conto di Fazi Editore del romanzo  Stoner di John Edward Williams.

Come sei arrivato a Stoner?
E’ Stoner  che è arrivato a me. Lavoro per Fazi Editore da tanti anni e me lo hanno proposto. Non pensavo fosse un libro così speciale. Non l’ho cercato ma  è arrivato.

Che cosa hai provato appena lo hai letto?
Ho pensato fosse bellissimo. Non lo conoscevo prima. Stoner è un libro dimesso per come si presenta al lettore ma con il grande pregio di colpirti dritto al cuore. E’ così profondo e delicato che poi ne rimani completamente soggiogato.

Non ti ha spaventato lidea di tradurre un libro così riuscito?
No, perchè l’ho sentito molto vicino a me. Mi sono identificato nel protagonista e sopratutto nel narratore, il quale con uno sguardo un po’ malinconico  prende atto che la vita spesso è una sconfitta, nonostante  nei rapporti umani si nascondano delle vittorie quasi invisibili ma molto importanti. Trovo bellissimo per esempio il rapporto di Stoner con sua figlia. Pur essendo un rapporto così tragico perché il padre non riesce  ad aiutarla a trovare la sua felicità, tra loro esiste una profonda comprensione, come se reciprocamente fossero gli unici a riuscire a guardarsi veramente l’un l’altro ed ad essere solidali.

Pensi che te lo abbiano proposto perchè hanno intuito che ci potesse essere una certa affinità tra te e J. E. Williams?
Forse sì. Io lavoro da tanto tempo per loro e sanno quali sono le mie corde. E’ Laura Senserini, caporedattrice di Fazi Editore, che prende queste scelte. Ricordo che era un periodo in cui cercavo un libro facile da tradurre. Facendo questo mestiere uno impara presto che a volte conviene tradurre un libro lungo ma poco impegnativo piuttosto che un libro piccolo ma molto difficile, che magari richiede il doppio del lavoro e ti viene pagato la metà. Ma siccome Laura è  furba, prima mi ha fatto credere di affidarmi la traduzione di un libro lungo ma facile, e poi all’ultimo  mi ha “rifilato” Stoner.  Ed ho pensato che anche questa volta mi aveva fregato. Invece ha avuto ragione lei.  Alla fine per quanto ti costi fatica e sacrificio, perché il lavoro del traduttore è abbastanza ingrato sopratutto dal punto di vista economico, se ti capita la fortuna di tradurre un libro così bello e riuscito comunque ne vale la pena. E io devo dire che  mi è capitato veramente poche volte di avere così tanta soddisfazione da un libro. 

E stato difficile restituire la voce dellautore?
Sinceramente  non mi pongo mai questo problema. Dopo un po’ che traduco mi succede sempre una cosa strana, sento di essere come posseduto dall’autore, di diventare come lui. Dopo le prime pagine che sono sempre quelle più faticose in un qualche modo avverto di cominciare a scrivere come lui. Una volta beccata la nota dominante del testo poi è solo una questione di mantenere il ritmo. Perchè la prosa ha un andamento, se si entra in quella cadenza si deve solo fare lo sforzo di trovare l’escamotage in italiano per restituirla. Chiaramente poi le difficoltà cambiano d’autore ad autore. Nel caso di Stoner non ho dovuto fare molto perchè quando un libro è ben scritto non devi fare molto. Secondo me Williams lavorava tanto per avere una prosa apparentemente così semplice. Per lui la lingua era uno strumento non un fine, a lui interessava raccontare gli esseri umani non giocare a sperimentare con le parole e con la costruzione delle frasi. Quindi tutta la fatica se l’era già fatta lui. Io all'inizio per cercare di restituire la bellezza e la pulizia della prosa di Williams facevo delle circonvoluzioni di parole un po’ più complicate della versione originale. E molto spesso mi sono ritrovato a dovere tornare indietro e ad essere più fedele, per accorgermi che funzionava pure in italiano. E’ una cosa strana che non mi era mai successa prima. Perchè quando si traduce se si è veramente aderenti all’originale spesso ci si trova a scrivere uno strano italiano. Nel caso di Williams invece no, sono stato io a fare  due passi avanti e poi  rifarli indietro e verificare di dovere mantenermi più vicino alla sua prosa. E’ stato un po’ come se lui mi avesse preso per mano indicandomi la strada da percorrere.

E stato così anche per Butcher's Crossing, il suo secondo libro?
Anche Butcher's Crossing è un bellissimo romanzo però linguisticamente Stoner è inattaccabile. In Butcher's Crossing sono intervenuto in certi passaggi perché c’erano delle piccole ripetizioni e siccome mi dispiaceva mantenerle nella traduzione allora ho leggermente cambiato il testo. In Stoner questo non l’ho mai dovuto fare anche perchè lui era più maturo come scrittore. Ricordo che la prima pagina di Butcher 's Crossing è stata micidiale da tradurre perché è una descrizione dettagliatissima dell’arrivo in calesse al villaggio del protagonista. C’è una dovizia di particolari nella descrizione del calesse e delle sue finiture che poi è tutta volta a restituire la scomodità e la fatica del viaggio. Era un continuo dover cercare le parole e molto spesso era difficile trovarle perchè erano scomparse dall’inglese contemporaneo.

C’è una qualche parola che ti ha colpito in Stoner?
No. Non c’è una parola in particolare. Ciò che maggiormente mi ha colpito è l’uso che Williams fa degli avverbi. Li usa spesso e con grande precisione.

Quale altro libro che hai tradotto ti ha regalato grandi soddisfazioni al pari di Stoner?
Senza dubbio Nel Bosco (The Woodlanders) di Thomas Hardy, il primo libro che ho tradotto. Era l’unico romanzo di Thomas Hardy che non era ancora stato tradotto in italiano ed era proprio meraviglioso. E’ stato molto più difficile di Stoner perché aveva una prosa lirica che quasi sfiorava la poesia, un linguaggio aulico, difficile anche a livello lessicale. E poi ho dovuto lavorare in fretta perchè era la prima traduzione che facevo per Fazi e mi hanno veramente messo ai lavori forzati! Ho dovuto consegnarla in tempi record perchè intervenivo su una prima stesura di una traduzione che era stata fatta male. Ma piuttosto che sistemare quella sono ripartito da zero, senza avere nemmeno un’altra traduzione italiana di riferimento. Era un vero e proprio  salto nel buio. Dovevo tradurre dieci pagine al giorno e la sera piangevo dalla stanchezza e dalla rabbia: però ciò che stavo facendo era talmente bello che alla fine ancora adesso se mi capita di rileggerlo penso che sia una delle cose più belle che abbia fatto in vita mia. E la stessa cosa, con meno lacrime per fortuna, mi è capitata con Stoner.

C’è una frustrazione nel tradurre?
Sì. A volte pensi che l’originale sia più bello  e che non ce la farai mai a renderlo nella tua lingua. Mi è capitato con Thomas Hardy per esempio. In  The woodlanders c’erano delle descrizioni naturalistiche che erano fantastiche ma talmente vicine alla poesia da essere quasi intraducibili. In quel caso ci provi pur sapendo che la tua traduzione non sarà mai lontanamente la stessa cosa.

Come lavori? Hai un metodo?
All’inizio ero proprio un pazzo, traducevo pagina per pagina senza prima leggere tutto il libro perchè ero convinto che fosse più divertente scoprire  il testo man mano che lo traducevo. Invece adesso prima lo leggo tutto e poi mi metto a tradurre. Nel mio modo di lavorare la prima stesura è quella buona. E’ difficile che lasci una pagina in sospeso, non sono uno che ritorna su quello che ha già fatto. E’ proprio una questione caratteriale. Ritorno solo per perfezionare. Alla fine rileggo tutto prestando attenzione ai passaggi che so essere i più delicati.

C’è una traduzione che ti ha colpito?
La traduzione di Cesare Pavese del Quarantaduesimo parallelo di John Dos Passos è molto bella. Mi viene anche in mente la traduzione che Edoardo Nesi ha fatto con la collaborazione di Villoresi A. e Giua G. di  Infinite Jest  di DavidFoster Wallace per la quantità di lavoro che credo abbia richiesto.

Stai lavorando a qualche nuova traduzione?
Mi hanno appena proposto di tradurre Nothing but the night il primo libro di Williams,  un romanzo breve di ambientazione metropolitana.

Stefano Tummolini (Roma, 1969) è laureato in storia e critica del cinema presso l’Università La Sapienza di Roma e lavora come scrittore, traduttore e film-maker indipendente. Ha collaborato alla sceneggiatura di alcune serie tv (Distretto di polizia, Il bello delle donne, Tutti pazzi per amore) e film per il grande schermo, tra cui Il bagno turco di Ferzan Ozpetek. Ha realizzato vari cortometraggi, tra cui Il tuffatore (1997) e L’orizzonte (2001) presentati al Torino Film Festival e Prova d’attrice (1999) presentato alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. E’ autore di una monografia su Neil Jordan (Dino Audino Editore, 1996) e di un saggio sul melodramma cinematografico (Lo specchio della vita, Lindau 1999). Ha tradotto testi di autori classici e contemporanei dall’inglese e dallo spagnolo (tra cui Thomas Hardy, Miguel de Unamuno, Gore Vidal, Guillermo Arriaga, John Edward Williams) e ha collaborato come docente di scrittura cinematografica con la Scuola Holden di Torino. Nel 2005, due suoi racconti sono stati pubblicati nella raccolta Men on Men 4 (Oscar Mondadori) e nel 2008 è uscito il suo primo romanzo, La guerra dei sessi (Liberamente Editore). Un altro pianeta, il suo primo lungometraggio, è stato presentato alla 65° Mostra del Cinema di Venezia (sezione “Giornate degli autori”, premio “Queer Lion”) e al Sundance Film Festival (sezione “World drama”). Nel 2009 è stato candidato al Nastro d’argento come miglior regista esordiente.

giovedì 18 aprile 2013

STONER

Pensate alle librerie come se fossero cantine ed ai libri come se fossero bottiglie.

Conosco quel senso di impotenza che vi prende di fronte a tanta offerta: non sapere cosa scegliere e sopratutto il timore di prendersi una bella fregatura.

Io "bevo" tanto sia per passione che per lavoro. Sono fortunato, lo so.

Questo è il primo post che inaugura la sezione DISTILLATI  dove condividerò i nomi di  quelle bottiglie speciali che tra le tante hanno saputo lasciare (e lasceranno) un segno indelebile nella mia vita di alcolista della carta stampata.

Le mie sono solo segnalazioni. Non troverete né recensioni né analisi critiche. Questo mestiere lo lascio ad altri. 

Non troverete riassunti o descrizioni. A volte metterò dei link di riferimento ma la mia speranza è quella di farvi uscire di casa, entrare in una bella libreria, chiedere del libro, sentirvelo tra le mani, sfogliarlo e magari decidere di comprarlo. 

Perchè un libro come una bottiglia di vino prima di esser comprato va degustato.

Cominciamo.






STONER di John Williams, Fazi Editore.

Questo libro semplicemente straordinario è stato pubblicato nel 1965 negli Stati Uniti senza riscuotere alcun successo. E' stato poi riscoperto successivamente a fasi alterne. Da noi in Italia è stato pubblicato per la prima volta nel  febbraio del 2012 nella bella traduzione di Stefano Tummolini. 

Di seguito il link al bel saggio di Morris Dickstein apparso nel 2007 sulla Sunday Book Review del New York Times:   The Inner Lives of Men





mercoledì 17 aprile 2013

WC


Sono in stanza sdraiato sul letto a riposarmi. Devo ammettere che il viaggio è stato un poco stancante. Sette ore di treno sono tante ma è stata una mia scelta. Amo fare di testa mia e poi pentirmi. Comunque non c’è niente da fare in treno scrivo meglio, ho la tranquillità necessaria. In aereo invece succede tutto così rapidamente che i pensieri non fanno in tempo ad accendersi e diventare idee che si è arrivati già a destinazione. Sento di aver bisogno di assimilare la distanza.

La stanza dell’hotel è squallida ma c’è tutto quello di cui ho bisogno per passare la notte. Guardo fuori dalla finestra: la pioggia cade fitta. L’ho portata io da Milano ne sono sicuro. Mi ha seguito anche qui. Suona il telefono. Sono arrivati a prendermi. Mi guardo allo specchio, sistemo la mia camicia preferita di lino, metto la giacca a vento ed esco.

Nella “hall” c’è  una signora  che mi aspetta sorridente. Mi viene incontro. Contraccambio il sorriso. Ci stringiamo la mano ed usciamo dall’hotel. In macchina c’è suo marito. Sarà  il nostro Caronte fino a destinazione. Noto che sulla portiera della macchina troneggia la locandina del festival raffigurante una bella immagine presa dal film del mio amico Ivan.

Fuori dal finestrino scorre la periferia parigina in tutto il suo squallore molto simile a quella milanese. Anche qui ci sono tanti casermoni frutto di una sconsiderata edilizia popolare. Mi si leva il fiato a  pensare quante quante vite pulsino là dentro. Quante storie ci siano da raccontare.

I miei compagni di viaggio mi fanno i complimenti per il film, dicono di averlo molto amato. E’ strano ma in Francia il mio film sembra parlare maggiormente alle persone.

Arriviamo al cinema Jacques Tati con un’ora di anticipo. Beviamo una birra nel bar adiacente  alla sala e conosco altre persone che fanno parte dell’associazione organizzatrice del festival. In Francia è pieno di realtà simili che hanno lo scopo di  promuovere la cultura italiana sul territorio. Grazie ad esse il mio film ha avuto una buona visibilità.

Mentre sorseggio la mia birra e sgranocchio delle  noccioline osservo le pareti del bar. Ci sono locandine di vecchi film francesi e quelle dei film italiani che partecipano al festival. Della mia neanche l’ombra...

La sala è piena di gente. Il direttore del cinema mi presenta. Io saluto e ringrazio rispolverando il mio francese da scuola media, ci tengo a comunicare nella lingua di chi mi ospita mi sembra un segno di civiltà e cortesia. 

Si spengono le luci, il film inizia.

Vado a mangiare con gli organizzatori, sempre nel bar adiacente, sì  quello lì  dove la locandina del mio film manca...  Il cibo non è un granché ma chi mi conosce sa che non mi fermo davanti a nulla. Il vino è buono  e la compagnia ancor meglio.

Il film è terminato. Vengo accolto da un caloroso applauso. Il dibattito è lungo ed intenso. E’ molto bello parlare a chi ha appena visto il tuo film. Rispondere alle critiche, sorridere a un complimento o motivare una scelta. In questi momenti mi dico sempre di non prendermi troppo sul serio. Noi registi abbiamo un ego smisurato che spesso si impossessa di noi. Diffidate da chi vi racconta il contrario.

Ora che ci penso avevo anche scritto una piccola storia a riguardo, un esorcista per registi. Comunque…

Ritorniamo al solito bar dove l’organizzazione offre un rinfresco agli spettatori. Continuo a parlare con la gente, a rispondere a domande, a cercare di farmi capire nel mio francese stentato. Quando sento l’impellente bisogno di andare al bagno. 

Camminando verso la toilette tiro le somme della serata. Mi ritengo soddisfatto, il film  sembra essere  piaciuto. Peccato solo per la locandina... Però  i francesi si confermano essere degli intenditori del buon cinema.  Sorrido tra me . Forse dovrei trasferirmi a Parigi!

Quand’ecco che arrivo davanti alla porta della toilette e tutto improvvisamente ritorna al suo posto riportandomi con i piedi per terra.